I danni del fast fashion
Attualmente l’economia mondiale sembra aver raggiunto un punto di non ritorno. Le produzioni industriali stanno procurando gravi danni al nostro pianeta, e quello dell’abbigliamento e del tessile si colloca tra le cause principali.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, l’industria della moda produce tra i 4 e i 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica nell’atmosfera ogni anno. Ciò significa che è responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio. Ma non solo. La moda produce il 35% delle microplastiche che finiscono nei mari e negli oceani: esse derivano dal lavaggio dei capi sintetici, in primis il poliestere, che è il principale materiale utilizzato nella produzione di capi fast fashion. Si stima infatti che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei vari processi a cui i prodotti vanno incontro, come la tintura e la finitura.
Il ritmo d’acquisto del consumatore è ad oggi irrefrenabile. Esso non tiene conto delle conseguenze disastrose da esso scaturite in termini di sostenibilità, sia ambientale che sociale. L’interesse del consumatore è solo quello di seguire i trend, acquistare tanto, a basso costo, e in modo veloce. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2020 hanno generato circa 270 kg di emissioni di CO2 pro capite, che corrispondono a 121 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra.
Anche il modo in cui si eliminano gli indumenti che non si vuole più tenere in casa è cambiato. Molti capi vengono gettati anziché donati. Si stima che tra il 2000 e il 2015, la produzione di abbigliamento è raddoppiata, mentre l’utilizzo è diminuito del 36%. Questo ha comportato la riduzione del ciclo di vita dei vestiti e un consumo sempre crescente. Quest’ultimo ha comportato ad una produzione incessante, generando un ciclo difficilmente modificabile.
Una possibile soluzione
In uno scenario ben poco rassicurante, l’informazione, la divulgazione e la scoperta della realtà che si cela dietro abiti a basso prezzo e a 50 collezioni prodotte all’anno dalle grandi catene, hanno finalmente scoperchiato il vaso di Pandora, contribuendo a diffondere un pensiero più consapevole ed allarmistico.
Tale consapevolezza ha generato un cambio di abitudini in grado di coinvolgere in modo più deciso tutte le generazioni. I più coinvolti sono stati i giovani, risultati i più sensibili all’argomento, sia per quanto riguarda la tutela ambientale che l’aspetto morale ed etico. L’adozione di comportamenti sostenibili ha dapprima raggiunto solo alcuni ragazzi, per poi diffondersi velocemente, anche attraverso l’ausilio dei social media, divenendo un argomento fortemente dibattuto.
Il second hand come risposta al fast fashion
È per i sopracitati motivi che oggi assistiamo alla nascita di forme alternative di consumo e al consolidamento di nuovi modelli di business. Tra questi, una delle più consistenti e rilevanti è il fenomeno della vendita del second-hand, comunemente detto “usato”.
Se fino a qualche anno fa questo ambito era relegato ai mercatini, oggi rappresenta un vero e proprio stile di vita di chi ne riconosce il potenziale ecologico ed autorappresentativo. Infatti, oltre ad essere una scelta green, il second-hand è riconosciuto come un hobby ed un modo per esprimersi in modo unico, fuori dall’omologazione, distinguersi dalla massa per molti.
Per quanto riguarda il suo impatto sostenibile, la compravendita di usato contribuisce a ridurre le emissioni. Questo perché riduce la produzione del “nuovo” e permette di rimandare lo smaltimento, passando da un’economia lineare a una circolare.
Quest’ultima è un modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile. Così facendo si estende il ciclo di vita dei prodotti e si contribuisce a ridurre i rifiuti al minimo. I principi di tale modello contrastano con il tradizionale modello economico lineare, fondato invece sul tipico schema “estrarre-produrre-utilizzare-gettare”. Quest’ultimo dipende dalla disponibilità di grandi quantità di materiali ed energia facilmente reperibili e a basso prezzo.
La sostenibilità può dunque non rappresentare la prima motivazione per cui ci si avvicina al second-hand, ma è sicuramente la conseguenza migliore per gli impatti sul nostro pianeta.